mercoledì, gennaio 11, 2012

Introduzione al Terzino

Qui di seguito la nota introduttiva scritta per Il terzino nella grappa, il primo libro curato interamente dai Refusi che ha visto la luce qualche settimane fa in un'affollatissima presentazione durante l'Arziwinter. Cercatelo nelle librerie che lo espongono in vetrina dalle nostre parti, su facebook o richiedetelo direttamente a noi all'indirizzo info@refusi.com. Sarà un piacere darvelo "in pasto".

Marsica, Abruzzo, la regione a più alto tassoalcolico d’Italia, ma anche quella che ha dato i natali al genio di John Fante, “scappato” in America per tornare poi, qualche decina di anni dopo, a far conoscere in tutto il mondo la terra verde d’Europa attraverso le gesta di Arturo Bandini e della sua famiglia. La madre del poeta romano Ovidio, del vate D’Annunzio e, per rimanere nella “zona del Fucino”, dell’indimenticabile Silone di Fontamara, passato sui banchi di intere generazioni e spaccato storico e sociale di una terra arida ma combattiva, ferita più volte da guerre e terremoti ma sempre pronta e capace di rialzarsi. Marsica, Abruzzo, il minimo comune denominatore per nove scrittori scelti e ospitati in questo piccolo, giovane libro. Una produzione che è un progetto aperto sul futuro e una scommessa per noi Refusi, che lo abbiamo curato e prodotto, e per gli autori stessi che ci hanno prestato il loro impegno trasformato in inchiostro. Un progetto che ha la sua genesi storica tutta nel titolo: Il terzino nella grappa, un’ispirazione “rubata” a un’altra vicenda letteraria, un po’ più grande e un po’ più distante. The catcher in the Rye è il titolo in lingua originale de Il giovane Holden di Salinger, ma il suo editore italiano ritenne che una traduzione letterale sarebbe stata incomprensibile al pubblico nostrano perché il titolo si basava su un gioco di rimandi alla cultura popolare anglosassone («un po’ come se in Italia si dicesse “il terzino nella grappa”»). Noi invece siamo partiti proprio da lì, da quella possibilità scartata ma piena di potenziali significati, per trovare la giusta impressione da dare in pasto alle nostre 9 penne marsicane, che ne hanno fatto quello che hanno voluto. I racconti venuti su da una tale indicazione “sradicata” sono assolutamente estranei l’uno dall’altro eppure, a voler fare un esercizio di critica, parlano tutti della stessa cosa, in un modo che ci ha sorpresi ognuno racconta di un terzino nella grappa. Quello che avete tra le mani, dunque, è il risultato di un lavoro collettivo fatto di passione per la letteratura, per la scrittura e per l’editoria, che si dimostra essere presente anche in una zona che non sempre, nonostante i suoi famosi rappresentanti del passato, lo ha dimostrato. Il terzino nella grappa è tutto questo e, soprattutto, tutto quello che vorrete vederci voi leggendolo, che siate lettori accaniti o semplici curiosi interessati a capire cosa fermenta nella mente di chi è cresciuto attraversando la conca del Fucino, il Parco Nazionale d’Abruzzo e la Valle Roveto…

martedì, settembre 13, 2011

Aspetta primavera Lucky, l'editoria ai tempi del brand.

Pubblicato originariamente sul blog dei Refusi
Essere un lavoratore dell’editoria del terzo millennio significa, in gran parte dei casi, soffrire di una crisi che da ormai troppo tempo investe il settore. Essere un lavoratore dell’editoria autonomo, altrimenti detto freelance, invece può anche significare di vivere in crisi economica ed esistenziale per 350 giorni all’anno (dal conto si possono provare a escludere le feste comandate che servono pur sempre a dare un po’ di sollievo). Soldi da racimolare per pagare l’affitto e notti insonni a cercare di farsi venire una benedetta idea che permetta di cambiare le cose; tempo e denaro spesi tra brunch e happy hour a cui partecipare per conoscere le “persone giuste”, e-mail inviate senza ricevere quasi mai risposta e tante forze impiegate a cercare di recuperare crediti per lavori svolti tre o quattro (se tutto va bene) mesi prima.

È la dura vita dei lavoratori dell’“industria” editoriale; spesso senza diritti contrattuali, ma non esenti dal dover rispettare tempi di consegna da maratoneti e sempre alla ricerca di nuovi appigli cui aggrapparsi per non scomparire nel grande buco nero dell’anonimato.

È quella stessa dura vita raccontata sarcasticamente e con gran talento da Flavio Santi nel suo Aspetta primavera, Lucky, romanzo uscito a inizio anno per inaugurare “Luminol”, la nuova collana dei tipi della Socrates.

Un libro che, scimmiottando il titolo e il personaggio di fantiana memoria e accostandosi alla Vita agra di Bianciardi, ci guida in un mondo fatto di licenziamenti di bravi direttori editoriali per far posto al raccomandato di turno e di bollette scadute; di conduttori televisivi che si occupano di libri senza averne mai letto uno e di scrittori ormai vittime del loro essere diventati brand. Il talentuoso traduttore Fulvio Sant, alter ego dell’autore, è così costretto a rifugiarsi “mettendo la testa sotto terra”, come fanno gli struzzi, tappandosi le orecchie e cercando di (r)esistere, pesando quotidianamente le proprie traduzioni per capire se il numero di pagine basterà per luce, gas e telefono a fine mese.

Gli incontri con i personaggi grotteschi che popolano le scrivanie che contano, editori che non pagano (e a voler cercare il pelo nell’uovo ci sarebbe da chiedere all’autore il perché della scelta di non fare i nomi in un libro in cui i riferimenti a cose e persone sono tutt’altro che casuali), una compagna fissa e una con cui soddisfare i bisogni sessuali, la scrittura destrutturata tra il ghostwriting e i mille corsi per improbabili studenti universitari pur di farla diventare pane quotidiano… la vita di Fulvio Sant è tutto quello che non si sarebbe mai aspettato di dover affrontare dopo gli studi, le lauree e i master conquistati con sudore nel tempo. Ma la realtà che emerge dalle pagine di questo piccolo dramma generazionale è ben più amara e allora, a ben vedere, è lui che può permettersi di aggiornare proprio l’autore della Vita agra su quello che è diventato il “suo” mondo oggi: «Caro Bianciardi, tu non puoi saperlo, ma noi siamo la prima generazione di intellettuali-operai. Che buffo, una volta Flaiano ha scritto: “Non ci restano che gli artisti a voler sembrare operai”. Adesso lo siamo diventati per davvero, e non per posa snobistica. […] Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere». Già, una realtà decisamente amara e un libro da far leggere a tutti quelli che, al primo incontro, sono abituati a chiederti: «E tu che lavoro fai?».

Flavio Santi, Aspetta primavera, Lucky, Socrates, Roma 2011

martedì, giugno 28, 2011

Annunciazio' annunciazio'

Il testo di presentazione di Arzibanda 2011.

Sì sì, lo sappiamo che un po’ in tutta Italia si stanno festeggiando i 150 anni dell’unità, ma lasciateci essere orgogliosi di potervi invitare a un altro tipo di celebrazione, ché essere arrivati alla QUINDICESIMA ARZIBANDA è cosa grossa per noi e per tutti quelli che negli anni hanno avuto a che fare con questa sorprendente esperienza.

Questo è dunque un invito per chi crede che sia realmente possibile organizzare il caos e che la qualità sia ancora meglio della quantità, per chi ama condividere un bicchiere di vino tra piazze e piazzette e per chi vuole tornare a vivere le strade del nostro vecchio paese come mai si riesce a fare durante l’anno.

Questa è un’esortazione a godere della gioia e della spensieratezza, dei balli e delle goliardate, di bande sgangherate e di suoni evocativi che accompagnano i sogni. Un invito per chi le maschere da saldatore è abituato a vederle addosso a chi lavora sui binari al sole e non se le aspetterebbe mai sopra un palco indossate da celati musicisti “fuori dal comune”.

È un invito a venire a vedere e a testare con mano come in questa festa tutti possano sentirsi partecipi e tutti siano contenti di dare una mano, sudando a lungo prima e gioendo poi, magari dopo aver montato un palco sotto il cielo estivo o dopo aver cucinato mille arrosticini.

Questo è un invito a venire ad ascoltare Ascanio Celestini e la sua “lezione” sul razzismo, le sperimentazioni musicali dei This Harmony e le atmosfere reggae dei Franziska. A togliere i freni alle gambe con i ritmi balcanici della Zastava e poi ancora a godersi il blues elettronico dei The Cyborgs, la musica per barbieri dei BahBohMah, le rime in romanesco del Muro del Canto e le contaminazioni del jazz gustando un aperitivo multietnico, anche quest’anno offerto dalle comunità degli immigrati durante quella “Festa dei colori” che tornerà a mischiare e unire culture e tradizioni lontane.

Questo è un invito ad aiutarci a rendere Arzibanda ancora una volta speciale; con la vostra partecipazione, i vostri sorrisi e la voglia, genuina, di divertirvi insieme a noi. Se state pensando di farci un regalo, sappiate che questo, a noi, è quello che piace di più!

martedì, giugno 21, 2011

Il giornalismo informatico ai tempi di Brunetta

Qualche giorno fa l’aitante ministro Brunetta disquisiva davanti a una telecamera sui giornali informatici in cui lavorano centinaia di precari sfruttati della becera e ipocrita sinistra. Il ministro si era forse dimenticato però, dannata memoria, di un altro giornale online, finanziato dalla sua fondazione e affidato a un’agenzia di comunicazione che cura la sua immagine anche su facebook e che stipendia una persona addetta a cancellare gli insulti che gli vengono rivolti ogni volta che lui se la prende con il mondo intero.

Io in quella agenzia c’ho lavorato. Ho cominciato il mio rapporto con loro mercoledì 8 giugno e sono stato licenziato ieri, lunedì 20 giugno. Escludendo quella volta di qualche anno fa in cui andai a fare volantinaggio e smisi dopo due giorni per una sorta di gotta ai piedi, posso dire con certezza che sia stata l’esperienza lavorativa più breve della mia vita.

Ora, c’è da dire che là dentro mi stavo facendo un fegato grosso così a sopportare le linee editoriali dettate dai diversi clienti a cui si doveva far dei piaceri evitando di dare notizie scomode, ma il lavoro è lavoro e allora si andava avanti cercando di ottemperare le richieste di un silenziosissimo “direttore senza direzione” e degli altri “redattori senza redazionali” con più esperienza alle spalle.

E il fegato grosso così mi si è fatto anche nel sentirmi dire che per fare una notizia sui loro siti basta cambiare il titolo, l’attacco del pezzo e poi fare comodamente copia e incolla dalla fonte originaria (“Soprattutto da Dagospia che quelli non sono indicizzati dai motori di ricerca!!!”). Poi fa niente se il motivo per sbatterti fuori è che hai fatto copia e incolla per inserire 100 articoli in due giorni su un sito che doveva vedere la luce il giorno dopo. Loro queste cose non le fanno: “Te le sei sognate e noi siamo un’azienda seria”.

E vada pure questa, vada che hai dovuto recensire biografie di politici mafiosi senza manco (fortunatamente) aver letto il libro, vada che sei stato tacciato di essere l’unico elemento polemico della redazione solo perché hai chiesto informazioni sulla linea editoriale del giornale dopo esserti preso un rimprovero a 200 decibel, vada che gli hai dedicato anche un’intera domenica ad assecondare i deliri leghisti e che non hai potuto pubblicare la foto di quando la Polverini imboccava Bossi.

Vada via tutto! Che quello che rimane, per l’ennesima volta, è il senso di smarrimento per un settore troppo precario, in cui l’informazione si misura in accessi (e allora va bene anche metter due seni in bella mostra per far salire lo “share”) senza preoccuparsi né della qualità né dell’aspetto di quello che si pubblica, in cui se non sei uniformato alla linea di pensiero del cliente sei polemico e in cui c’è sempre una lettera di licenziamento, quando sei fortunato a firmare un contratto, pronta dentro il cassetto del capo dei capi…

Pubblicato originariamente sul blog dei Refusi.

martedì, febbraio 01, 2011

La bella televisione

In un palinsesto televisivo colmo ormai fino all’osso di nani, ballerine e puttane che sbraitano, si insultano e si mandano all’altro paese vicendevolmente e con assoluta nonchalance, è tornato finalmente a regalarci una boccata d’aria Presadiretta, il programma in onda la domenica sera su rai Tre. Diretta pregevolmente da Riccardo Iacona, la trasmissione si presenta mostrando ogni volta quanto un modo diverso di intendere il mezzo televisivo e il mestiere del giornalista sia non solo necessario, ma anche possibile. Il suo programma è ogni volta un pugno allo stomaco e, allo stesso tempo, una sveglia quanto mai salutare per destarsi dal grigiore politico e mediatico in cui questo Paese è sprofondato. Una trasmissione che indaga, documenta e fa domande molte volte scomode a chi è ormai abituato a interviste con tappeti rossi stesi ai propri piedi. Nessun politico di turno in studio a urlare, nessun presidente del Consiglio a telefonare da casa. Solo i fatti, nudi e crudi, come non si vede più da troppo tempo. Aggiungeteci poi una redazione e un gruppo di lavoro indomabili, storie troppe volte dimenticate dal mainstream e il mix è più che riuscitissimo. Domenica il primo appuntamento della nuova serie lunga otto puntate è stato dedicato ad Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica morto ammazzato cinque mesi fa in circostanze ancora da chiarire; una scelta coraggiosa, come sempre, che ha dato a Iacona il giusto pretesto per ritornare su temi che la stessa trasmissione aveva trattato prima della pausa. Così la 'ndrangheta, e i suoi rapporti con la politica, sono tornati a occupare la prima fascia serale mostrando un Paese altro, molto distante come sempre dai problemi di “attualità” e lontano dalla politica dei palazzi romani dove si scelgono le candidature e le carriere. È proprio questo il punto più forte della trasmissione: Iacona e la sua troupe “vivono” e mostrano il “territorio Italia” come nessun’altro è capace di fare, e se ogni volta non ci resta che stupirci, allora scusate ma è proprio vero che siamo stati abituati troppo male. Chapeau.

lunedì, ottobre 11, 2010

Insert Coin

Sulle piste dove correvo da piccolo col go-kart oggi hanno costruito delle pensiline per gli autobus e le moto sfrecciano troppo veloce. Sogno di giorni felici, mentre tutto intorno si susseguono lutti e nuovi amori, catastrofi e matrimoni, che pure se non scrivo sul blog da un po’ il tempo mica si è fermato. Sullo schermo intanto la scritta continua a lampeggiare. Insert Coin to Play. Ma i gettoni sono finiti da un pezzo e ora nemmeno i sottotappi della coca cola riescono a far partire la macchina dell’autoscontro. Sapevo che sarebbe successo prima o poi. Non dovevo fidarmi della zia. Be', ora che il giostraio ci ha presi nel sacco bisogna scendere prima che arrivi a istruirci con il suo dialetto e il suo bastone zingaro. O forse no. Forse c’è addirittura il tempo per l’ultima corsa, quella finale. Schiaccia il pedale allora! E che non ci prendano! Né adesso né fra un anno, quando ci nasconderemo in un bar di periferia a cantare canzoni neomelodiche degli anni Settanta con un vecchio bassista sudamericano.

E ti prego: stappa una Peroni, o una Raffo, o anche una Bitburger, e andiamocela a bere insieme sotto un palco o sulla sabbia. Ma niente pantaloncini neri dalle tasche bucate stavolta; porterò il marsupio giallo, che ieri c’ho appuntato una spilla nuova. Inviterò un po’ di amici e riscriverò il piano traffico, come ho fatto quest’estate per l’Arzibanda, e allora sì che ci si potrà buttare in mezzo al caos di questo Paese del cazzo senza farsi investire.

No, non mi prenderà il giostraio. E nemmeno la sua banda. Che corrano e che sputino pure rabbia. Io ormai lo conosco troppo bene questo video-game.

venerdì, aprile 30, 2010

Intanto qua vicino costruiscono case di lamiera e polvere.

Ci sono panni stesi ad asciugare da queste parti. È domenica mattina e i bambini continuano a venire al mondo anche se i concerti costano troppo, le tasche son sempre bucate e gli affitti da saldare soffiano sul collo a ricordarti che l’aria è buona ma di questi tempi costa cara. Intanto qua vicino costruiscono case di lamiera e polvere. Le fanno dentro i nidi di merlo sui ciliegi in fiore. Dicono che sia facile, che basta trovare il giusto equilibrio nell’impasto e poi è fatta; si possono innalzare fino anche al terzo piano se si è bravi nel prepararlo, l’impasto. Per gli intonaci, invece, servono i professionisti, ma pure quelli sembra si facciano pagare un bel po’. E comunque oltre al terzo piano proprio non si può andare, che se poi fa il terremoto cade tutto giù in un attimo. Io intanto osservo dal bar, che quando arrivo in un posto nuovo, per conoscerlo, devo andare a sentirne gli odori e gli umori nei luoghi in cui l’umanità si incontra e beve birra o prende semplicemente un caffè discutendo del derby che verrà. E allora, dai tavoli che tornano a riempire i marciapiedi in questa primavera un po’ così, è facile provare a scorgere case e cose nuove all’orizzonte, anche se si tornano a incontrare per qualche ora i passati e le vecchie conoscenze, che ora è bello anche solo raccontarsi “come ci va” in questa città che sa bene come tagliarti le gambe quando ne ha voglia.

E che poi a tutti vada un po’ a cazzo è altro discorso, scontato quanto basta per ricordarci che dalla merda è difficile uscirne e che beato è chi ci riesce. C’è crisi, nera, e non è una novità. Le facce sono scure e chi più chi meno ha cominciato a richiudere il cassetto dei propri desideri.

Restano i limoni, quelli che riempiono ancora le bottiglie. I pedali che spingono le gomme gonfie sull’asfalto e gli umori che si confondono tra le lenzuola. E allora fanculo se la mia casa di lamiera e polvere forse non ce l’avrò mai. Se le tengano pure. Io ora mi siedo qui, tra un tram e i passanti intorbiditi. Stappo una familiare di Peroni e mi sciacquo la bocca dalle bacche selvatiche e dalla pioggia vulcanica. E mi metto nudo alla finestra del mio seminterrato senza balcone. E schiarisco la voce. E gracchio.

giovedì, febbraio 25, 2010

Refusando

Tra notti insonni, sfusi orari, email che propongono lavori a costo e zero e ancora tanti libri sul comodino, da queste parti si va avanti con nuove energie da investire nella lotta. Che ce n’è bisogno viste le tasche sempre più bucate e una precarietà ai limiti della sopportazione. E allora ci si reinventa, si scoprono nuovi linguaggi e nuove forme comunicative. Si sbatte la testa contro il tavolo dove è poggiato il portatile perché l’ftp non ne vuol sapere di capirti, e ci si immedesima per qualche giorno in un webmaster pronto a portare a termine il primo passo di un progetto che è l’unica prospettiva all’orizzonte.
Un progetto che si chiama Refusi, e che chi è del mestiere può capire che significa e chi no ci può trovare comunque un senso compiuto. È ideato, studiato e concepito da persone reali in un mondo liquido, da entità sovrapposte e da tessere di un mosaico tutto da sistemare. È una strada sterrata e comunque da percorrere per non rimanere fermi ad aspettare che un tir ti sbatta definitivamente sul ciglio. È un insieme di esperienze lavorative e di vita, di scrivanie logorate dai gomiti e di umori altalenanti; una condivisione che si fa gruppo e si propone in questo maledetto mercato con un’idea, che almeno quelle, le idee, non sono ancora riusciti a togliercele.
Si parte da qui allora (www.refusi.com), da un sito che vuole essere una vetrina per giovani addetti al lavoro editoriale più precari che mai, un sito che è un continuo work in progress e su cui più di una persona ci sta spendendo energie, forze e aspettative. È un sito semplice, un foglio bianco su cui provare a scrivere pagine di una storia tutta da inventare insieme a chi incrocerà il nostro destino.
E se anche voi che leggete riuscirete per un attimo a sentirvi un po’ Refusi… be’ allora aiutateci sostenendo l’idea, parlando di noi a mamme, figli e parenti vari, linkando il nostro sito sui vostri blog, sui vostri myspace e sulle vostre vetrine di facebook… che qua, diciamocelo chiaramente, ne va della sopravvivenza di una specie in via di estinzione…


In ascolto: La lotta armata al bar - LLDCE

domenica, febbraio 14, 2010

crisi

Dicono che oggi è San Valentino, ma l’amore se l’è preso l’uomo dei baci perugina. Dicono che si festeggiava anche il capodanno cinese, ma io ho visto solo draghi guidati da italiani brava gente e di cinese non c’erano manco le ombre. Dicono pure che è carnevale, ma mi sa che le maschere stanno tutte negli armadi delle streghe di Halloween.
Sì. C'è crisi. E gli stormi compiono delle evoluzioni incomprensibili.

martedì, febbraio 02, 2010

L'asfalto drenante dell'autostrada del sole.

L’asfalto drenante dell’autostrada del sole non è lo stesso che toccano le ruote del 12 notturno; quello che i proprietari del ristorante sotto casa cercano di prendere al volo chiudendo in fretta il locale che poi chissà quando passa il prossimo.
Sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole puoi permetterti di stare sopra ai 100 pure se di acqua ne cade così tanta che Dio o chi per lui non la mandava da un po’. E pure se c’hai quella ruota da gonfiare di nuovo al primo benzinaio aperto.
E allora ci puoi pure bruciare chilometri velocemente sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole, e manco accorgertene che la bottiglia del bianchetto che il tuo passeggero sta beatamente consumando da solo è quasi finita.
Una volta che hai lasciato la città eterna ci attraversi la campagna romana con l’autostrada del sole. La A1, l’autostrada regina, quella grande opera pubblica capace di accorciare le distanze già prima di facebook; quella stessa autostrada su cui, se prosegui fino in Toscana, ci puoi trovare un esempio di come procurarsi “gloria eterna” nel proprio feudo elettorale in pieno stile scudocrociato. Quella “curva Fanfani” che, si narra, sia una deviazione rispetto all’originale progetto, disegnata sulla carta proprio da Amintore per far arrivare un casello ad Arezzo, la sua provincia d’origine.
E poco importa se Perugia non abbia avuto un suo rappresentante capace di simil prodezze all’epoca, fatto sta che ora per arrivare da quelle parti si deve percorrere un’imbarazzante E45, che l’asfalto drenante dell’autostrada del sole, diciamocelo, se lo sogna.
Perugia è la meta designata da raggiungere per ascoltare il Maestro, quel tic impazzito della canzone d’autore che risponde al nome di Giampaolo Bruno Piccinini. Cantautore atipico che è solito esibirsi in bettole e cantine di seconda categoria, il Piccinini questa volta è stato chiamato a intrattenere un pubblico nuovo e attento che riesce ben presto ad apprezzare le sue dita incrociate sul bianco e nero della tastiera e la sua voce amara.
Perugia diventa allora un ideale punto d’incontro nemmeno troppo difficile da raggiungere. C’è gente amica che si è mossa un po’ dappertutto e pare che il nostro, dopo la A1 e dopo facebook, sia stato capace di ridurre ancora di più le distanze.
A fare da collante alle diverse provenienze una collaudata aggregazione di orsi marsicani, una sorta di fan club (più fun che fan in realtà), pronti a darsi battaglia sui banconi della città e all’interno della Grotta Paolina, dove è in scena la fiera italiana, con annessa degustazione, delle migliori grappe italiane.
Per arrivare al locale, piccolo ma accogliente, c’è anche il tempo di assaporare il freddo pungente della città passeggiando tra vicoli stretti e sotto porte antiche che sembra di stare all’Aquila quando era ancora viva. Ricordi e nostalgia nella gioia scanzonata di una chitarra scordata. Sul palco, solo come nelle rare esibizioni del Piccinini può succedere, in poco più di un’ora passa di tutto: favole e terremoti che si rincorrono insieme a una vela su cui soffiare, amanti e tanghi suonati dalla gelosia. E superciuk, e ministribrunetta a cui dedicare Lunghezza campo nomadi. E uomini in cenere e taverne di Zaccaria. Garcia Lorca e “rapsodie portegne”. Corpi di donne, salsedine e chimere. Verbali di pignoramento e bicchieri di whisky smezzati con sorsi d’acqua. “Turbini di rondini in cielo e in fuga dal gelo” e “Cera delle ali, precipizi di umori e addii”.
Dentro al locale non si fuma, e allora è gioco facile inventarsi una pausa sigaretta per camuffare un bis che arriverà solo mezz’ora dopo, quando tornano all’interno i fun e il gioco etilico prende il sopravvento su quello delle parole; degna conclusione di uno spettacolo che è insieme musica e amore, notti in bianco e vestiti buttati sulla poltrona, vino nel tetrapak e tasche bucate.
Per riprendere a bruciare chilometri sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole, però, c’è ancora tempo. Una notte intera. Da riempirsi gli occhi e la memoria di facce che ridono, di accordi strappati, di bocche che sboccano e di intermezzi. Di gocce di neve che cadono da cieli neri, di bucce di mandarino nascoste sotto i sedili e di fazzoletti usati come block notes alla faccia dell’iPhone.
E c’è tempo anche per “maledire i ritmi della società moderna”, per scordarsi di aprire il sacco a pelo e per scovare una scogliera disegnata a matita dentro la grotta tra un po’ di filosofia e l’ultimo bicchiere di grappa… quella che rimane sulla bocca dello stomaco e che non ne vuol sapere di andare giù.