lunedì, ottobre 11, 2010

Insert Coin

Sulle piste dove correvo da piccolo col go-kart oggi hanno costruito delle pensiline per gli autobus e le moto sfrecciano troppo veloce. Sogno di giorni felici, mentre tutto intorno si susseguono lutti e nuovi amori, catastrofi e matrimoni, che pure se non scrivo sul blog da un po’ il tempo mica si è fermato. Sullo schermo intanto la scritta continua a lampeggiare. Insert Coin to Play. Ma i gettoni sono finiti da un pezzo e ora nemmeno i sottotappi della coca cola riescono a far partire la macchina dell’autoscontro. Sapevo che sarebbe successo prima o poi. Non dovevo fidarmi della zia. Be', ora che il giostraio ci ha presi nel sacco bisogna scendere prima che arrivi a istruirci con il suo dialetto e il suo bastone zingaro. O forse no. Forse c’è addirittura il tempo per l’ultima corsa, quella finale. Schiaccia il pedale allora! E che non ci prendano! Né adesso né fra un anno, quando ci nasconderemo in un bar di periferia a cantare canzoni neomelodiche degli anni Settanta con un vecchio bassista sudamericano.

E ti prego: stappa una Peroni, o una Raffo, o anche una Bitburger, e andiamocela a bere insieme sotto un palco o sulla sabbia. Ma niente pantaloncini neri dalle tasche bucate stavolta; porterò il marsupio giallo, che ieri c’ho appuntato una spilla nuova. Inviterò un po’ di amici e riscriverò il piano traffico, come ho fatto quest’estate per l’Arzibanda, e allora sì che ci si potrà buttare in mezzo al caos di questo Paese del cazzo senza farsi investire.

No, non mi prenderà il giostraio. E nemmeno la sua banda. Che corrano e che sputino pure rabbia. Io ormai lo conosco troppo bene questo video-game.

venerdì, aprile 30, 2010

Intanto qua vicino costruiscono case di lamiera e polvere.

Ci sono panni stesi ad asciugare da queste parti. È domenica mattina e i bambini continuano a venire al mondo anche se i concerti costano troppo, le tasche son sempre bucate e gli affitti da saldare soffiano sul collo a ricordarti che l’aria è buona ma di questi tempi costa cara. Intanto qua vicino costruiscono case di lamiera e polvere. Le fanno dentro i nidi di merlo sui ciliegi in fiore. Dicono che sia facile, che basta trovare il giusto equilibrio nell’impasto e poi è fatta; si possono innalzare fino anche al terzo piano se si è bravi nel prepararlo, l’impasto. Per gli intonaci, invece, servono i professionisti, ma pure quelli sembra si facciano pagare un bel po’. E comunque oltre al terzo piano proprio non si può andare, che se poi fa il terremoto cade tutto giù in un attimo. Io intanto osservo dal bar, che quando arrivo in un posto nuovo, per conoscerlo, devo andare a sentirne gli odori e gli umori nei luoghi in cui l’umanità si incontra e beve birra o prende semplicemente un caffè discutendo del derby che verrà. E allora, dai tavoli che tornano a riempire i marciapiedi in questa primavera un po’ così, è facile provare a scorgere case e cose nuove all’orizzonte, anche se si tornano a incontrare per qualche ora i passati e le vecchie conoscenze, che ora è bello anche solo raccontarsi “come ci va” in questa città che sa bene come tagliarti le gambe quando ne ha voglia.

E che poi a tutti vada un po’ a cazzo è altro discorso, scontato quanto basta per ricordarci che dalla merda è difficile uscirne e che beato è chi ci riesce. C’è crisi, nera, e non è una novità. Le facce sono scure e chi più chi meno ha cominciato a richiudere il cassetto dei propri desideri.

Restano i limoni, quelli che riempiono ancora le bottiglie. I pedali che spingono le gomme gonfie sull’asfalto e gli umori che si confondono tra le lenzuola. E allora fanculo se la mia casa di lamiera e polvere forse non ce l’avrò mai. Se le tengano pure. Io ora mi siedo qui, tra un tram e i passanti intorbiditi. Stappo una familiare di Peroni e mi sciacquo la bocca dalle bacche selvatiche e dalla pioggia vulcanica. E mi metto nudo alla finestra del mio seminterrato senza balcone. E schiarisco la voce. E gracchio.

giovedì, febbraio 25, 2010

Refusando

Tra notti insonni, sfusi orari, email che propongono lavori a costo e zero e ancora tanti libri sul comodino, da queste parti si va avanti con nuove energie da investire nella lotta. Che ce n’è bisogno viste le tasche sempre più bucate e una precarietà ai limiti della sopportazione. E allora ci si reinventa, si scoprono nuovi linguaggi e nuove forme comunicative. Si sbatte la testa contro il tavolo dove è poggiato il portatile perché l’ftp non ne vuol sapere di capirti, e ci si immedesima per qualche giorno in un webmaster pronto a portare a termine il primo passo di un progetto che è l’unica prospettiva all’orizzonte.
Un progetto che si chiama Refusi, e che chi è del mestiere può capire che significa e chi no ci può trovare comunque un senso compiuto. È ideato, studiato e concepito da persone reali in un mondo liquido, da entità sovrapposte e da tessere di un mosaico tutto da sistemare. È una strada sterrata e comunque da percorrere per non rimanere fermi ad aspettare che un tir ti sbatta definitivamente sul ciglio. È un insieme di esperienze lavorative e di vita, di scrivanie logorate dai gomiti e di umori altalenanti; una condivisione che si fa gruppo e si propone in questo maledetto mercato con un’idea, che almeno quelle, le idee, non sono ancora riusciti a togliercele.
Si parte da qui allora (www.refusi.com), da un sito che vuole essere una vetrina per giovani addetti al lavoro editoriale più precari che mai, un sito che è un continuo work in progress e su cui più di una persona ci sta spendendo energie, forze e aspettative. È un sito semplice, un foglio bianco su cui provare a scrivere pagine di una storia tutta da inventare insieme a chi incrocerà il nostro destino.
E se anche voi che leggete riuscirete per un attimo a sentirvi un po’ Refusi… be’ allora aiutateci sostenendo l’idea, parlando di noi a mamme, figli e parenti vari, linkando il nostro sito sui vostri blog, sui vostri myspace e sulle vostre vetrine di facebook… che qua, diciamocelo chiaramente, ne va della sopravvivenza di una specie in via di estinzione…


In ascolto: La lotta armata al bar - LLDCE

domenica, febbraio 14, 2010

crisi

Dicono che oggi è San Valentino, ma l’amore se l’è preso l’uomo dei baci perugina. Dicono che si festeggiava anche il capodanno cinese, ma io ho visto solo draghi guidati da italiani brava gente e di cinese non c’erano manco le ombre. Dicono pure che è carnevale, ma mi sa che le maschere stanno tutte negli armadi delle streghe di Halloween.
Sì. C'è crisi. E gli stormi compiono delle evoluzioni incomprensibili.

martedì, febbraio 02, 2010

L'asfalto drenante dell'autostrada del sole.

L’asfalto drenante dell’autostrada del sole non è lo stesso che toccano le ruote del 12 notturno; quello che i proprietari del ristorante sotto casa cercano di prendere al volo chiudendo in fretta il locale che poi chissà quando passa il prossimo.
Sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole puoi permetterti di stare sopra ai 100 pure se di acqua ne cade così tanta che Dio o chi per lui non la mandava da un po’. E pure se c’hai quella ruota da gonfiare di nuovo al primo benzinaio aperto.
E allora ci puoi pure bruciare chilometri velocemente sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole, e manco accorgertene che la bottiglia del bianchetto che il tuo passeggero sta beatamente consumando da solo è quasi finita.
Una volta che hai lasciato la città eterna ci attraversi la campagna romana con l’autostrada del sole. La A1, l’autostrada regina, quella grande opera pubblica capace di accorciare le distanze già prima di facebook; quella stessa autostrada su cui, se prosegui fino in Toscana, ci puoi trovare un esempio di come procurarsi “gloria eterna” nel proprio feudo elettorale in pieno stile scudocrociato. Quella “curva Fanfani” che, si narra, sia una deviazione rispetto all’originale progetto, disegnata sulla carta proprio da Amintore per far arrivare un casello ad Arezzo, la sua provincia d’origine.
E poco importa se Perugia non abbia avuto un suo rappresentante capace di simil prodezze all’epoca, fatto sta che ora per arrivare da quelle parti si deve percorrere un’imbarazzante E45, che l’asfalto drenante dell’autostrada del sole, diciamocelo, se lo sogna.
Perugia è la meta designata da raggiungere per ascoltare il Maestro, quel tic impazzito della canzone d’autore che risponde al nome di Giampaolo Bruno Piccinini. Cantautore atipico che è solito esibirsi in bettole e cantine di seconda categoria, il Piccinini questa volta è stato chiamato a intrattenere un pubblico nuovo e attento che riesce ben presto ad apprezzare le sue dita incrociate sul bianco e nero della tastiera e la sua voce amara.
Perugia diventa allora un ideale punto d’incontro nemmeno troppo difficile da raggiungere. C’è gente amica che si è mossa un po’ dappertutto e pare che il nostro, dopo la A1 e dopo facebook, sia stato capace di ridurre ancora di più le distanze.
A fare da collante alle diverse provenienze una collaudata aggregazione di orsi marsicani, una sorta di fan club (più fun che fan in realtà), pronti a darsi battaglia sui banconi della città e all’interno della Grotta Paolina, dove è in scena la fiera italiana, con annessa degustazione, delle migliori grappe italiane.
Per arrivare al locale, piccolo ma accogliente, c’è anche il tempo di assaporare il freddo pungente della città passeggiando tra vicoli stretti e sotto porte antiche che sembra di stare all’Aquila quando era ancora viva. Ricordi e nostalgia nella gioia scanzonata di una chitarra scordata. Sul palco, solo come nelle rare esibizioni del Piccinini può succedere, in poco più di un’ora passa di tutto: favole e terremoti che si rincorrono insieme a una vela su cui soffiare, amanti e tanghi suonati dalla gelosia. E superciuk, e ministribrunetta a cui dedicare Lunghezza campo nomadi. E uomini in cenere e taverne di Zaccaria. Garcia Lorca e “rapsodie portegne”. Corpi di donne, salsedine e chimere. Verbali di pignoramento e bicchieri di whisky smezzati con sorsi d’acqua. “Turbini di rondini in cielo e in fuga dal gelo” e “Cera delle ali, precipizi di umori e addii”.
Dentro al locale non si fuma, e allora è gioco facile inventarsi una pausa sigaretta per camuffare un bis che arriverà solo mezz’ora dopo, quando tornano all’interno i fun e il gioco etilico prende il sopravvento su quello delle parole; degna conclusione di uno spettacolo che è insieme musica e amore, notti in bianco e vestiti buttati sulla poltrona, vino nel tetrapak e tasche bucate.
Per riprendere a bruciare chilometri sull’asfalto drenante dell’autostrada del sole, però, c’è ancora tempo. Una notte intera. Da riempirsi gli occhi e la memoria di facce che ridono, di accordi strappati, di bocche che sboccano e di intermezzi. Di gocce di neve che cadono da cieli neri, di bucce di mandarino nascoste sotto i sedili e di fazzoletti usati come block notes alla faccia dell’iPhone.
E c’è tempo anche per “maledire i ritmi della società moderna”, per scordarsi di aprire il sacco a pelo e per scovare una scogliera disegnata a matita dentro la grotta tra un po’ di filosofia e l’ultimo bicchiere di grappa… quella che rimane sulla bocca dello stomaco e che non ne vuol sapere di andare giù.

martedì, gennaio 26, 2010

di...

Di un paio di mesi fa.
Di corde che si consumano e di canzoni sconosciute.
Di Costituzione, costituzioni e prostituzione.
Di centri sociali che si auto organizzano e di diritti, valori e senso etico che non esistono più.
Di repressione e vino venduto a prezzi onesti.
Di Z. che se ne va lontano non prima di aver battezzato il mio bagno.
Di C., compagno e amico di bevute, ma poco aperto di vedute.
Di case accoglienti e letti freddi.
Di messaggi e presenze/assenze che creano scompiglio, noie e paranoie.
Di un Fa che continua a uscire come gli pare.
Di agenti esterni e strade sterrate.
Di fascisti e contratti improvvisati alla luce dell’ombra.
Di dialetto e altre cose.
Di scrivere pure se la gente attorno sta facendo tutt’altro.
Di Dente, dei Diaframma e di Ballata per la mia piccola iena.
Di un amico che risponde al telefono e di un altro che no.
Di me, che poi chissà.

martedì, gennaio 12, 2010

washing

Era da un po’ che non lavavo i denti. Che non mi svegliavo scorgendo il sole prima di arrivare allo specchio. Quello stesso specchio che evitavo da un po’ per paura di scoprire che la barba era troppo lunga o, peggio, che il mio occhio sinistro era di un altro colore. Era da un po’ che non mi lavavo i denti e ora che l’ho fatto la bocca è meno arsa, anche se l’alcol delle notti precedenti continua a irritare il palato e le labbra toccate e denudate si sentono ancora, con il loro sapore dolciastro e diffuso. Era da un po’ che non lavavo i denti e le nuvole coprono ancora questo lembo di terra mentre il palco è stato abbandonato dai musicisti e un improbabile dj seleziona pezzi che sradicano le piante da terra. Era da un po’ che non lavavo i denti, mentre i bar continuavano a riempirsi di avventori improvvisati e la gente scendeva per strada urlando a quelli che erano rimasti dentro che era arrivata l’ora della rivoluzione. Era da un po’ che non lavavo i denti e ora che l’ho fatto mi hanno detto che da queste parti c’è un angelo che si aggira indisturbato divertendosi a creare scompiglio ma nessuno lo può vedere, e l’unica persona che può farlo sta molto attento a non rivelarlo perché ancora non sembra il momento adatto per dirlo a nessuno. Qualcuno intanto spaccia sogni agli angoli delle strade e li vende a prezzi spropositati. Ma niente lamentele dolcezze… it’s only business.

In ascolto: Pop - Afterhours