martedì, febbraio 27, 2007

Adesso la Chiesa scende in campo sul serio

È cominciata sabato e non è passata inosservata all’attenzione dei media, pronti ad immortalare l’ultima, e sicuramente più originale, trovata della Chiesa degli ultimi mesi. Parliamo della Clericus Cup, il primo campionato di calcio pontificio per preti e seminaristi di tutto il mondo. La Chiesa insomma si da al calcio, con la speranza forse un tantino esagerata, di vedere un giorno la squadra con i colori vaticani battersi contro Inter, Milan e Juventus, le grandi del nostro calcio, come ha affermato il cardinal Bertone, uno dei più grandi sostenitori dell’iniziativa. Nel momento più triste e buio dello sport amato e praticato dalla maggior parte degli italiani, la discesa in campo del Vaticano sembra proprio un gran paradosso, ma tant’è e sabato davanti ad un pubblico molto più devoto rispetto a quello delle tanto chiacchierate curve dei nostri stadi, si è svolta la partita inaugurale tra i “brasiliani” dell’Università Gregoriana e il collegio Mater Ecllesiae. La cronaca della partita ha offerto già spunti interessanti; parlando del risultato ad esempio, non può che sorprendere il fatto che gli allievi abbiano già superato i maestri, i seminaristi hanno infatti liquidato i più quotati sudamericani con un punteggio tennistico. Un 6 a 0 che ha fatto già gridare al “miracolo”, mentre sembra che in seguito al rigore sbagliato sullo 0 a 1 il protagonista dell’errore abbia chiesto ai propri compagni se per caso quello potesse essere considerato un peccato… Fatte le dovute proporzioni, l’organizzazione del campionato ecclesiastico non si discosta dalla ben più quotata seria A, con la presenza di giocatori stranieri, folto pubblico sugli spalti, terne arbitrali e, soprattutto, significativi introiti da parte degli sponsor. Sulle maglie dei calciatori, infatti, campeggia in bella mostra il logo della Ina Assitalia, la compagnia assicuratrice che qualche hanno fa si era già impegnata nel mondo del calcio sponsorizzando la Roma di Totti. La differenza principale con il calcio più quotato? Non si giocherà mai di domenica, il giorno dedicato al Signore. Resta da capire ora, e qui il cronista è colto da una fortissima curiosità, cosa succederà ai giovani e inesperti calciatori “in saio” una volta scesi in campo, quando la foga agonistica si farà immancabilmente sentire. Nella partita inaugurale ci sono state solo due ammonizioni per falli veniali. Il vigore agonistico insomma è rimasto negli spogliatoi, ma già si scommette su quali saranno le sanzioni disciplinari in caso di eventuali espulsioni o squalifiche, basterà qualche giornata di sospensione o si renderà necessario intervenire dall’“alto” con un’assoluzione? E ancora, in che modo sarà possibile prendersela con l’arbitro? Banditi naturalmente gli epiteti di solito usati, che spesso prendono di mira anche la moglie del direttore di gara, ci sarà bisogno di nuove forme di protesta. Per quanto riguarda i tifosi, non è molto chiaro se sarà ancora possibile definire come “idoli” i propri calciatori preferiti, assolutamente vietato invece, dire che gli stessi giochino “da Dio”. Intanto, mentre cresce sempre con più insistenza la voce secondo cui si potrebbe presto giocare un derby infuocato tra la nazionale vaticana e quella degli atei, rimangono da delineare le linee guida di comportamento negli spogliatoi, a forte rischio l’integrità morale dei giovani seminaristi “costretti” a fare la doccia tutti insieme.

giovedì, febbraio 22, 2007

Ma un buon libro a volte non basta, attenti agli "editori a perdere"

Va bene, abbiamo un libro. Lo abbiamo scritto con tanto amore, ci abbiamo speso tanto tempo confidando di vederlo pubblicato perché, in cuor nostro, crediamo che sia il libro perfetto, quello capace di risaltare tra il grande pubblico. Ci resta solo da trovare un editore disposto a pubblicarlo. Prima di cominciare a cercarne uno, anche Miriam Bendia era una delle tante a far parte di quella orda di scrittori pronti a tutto pur di vedere il proprio testo compreso tra una prima e una quarta di copertina, magari in bella mostra in libreria. Armata di belle speranze cominciò così il suo viaggio alla ricerca di quell’editore che potesse soddisfare le sue speranze, ma si accorse ben presto che quello dell’editoria non era il mondo dorato che si aspettava. Appurato sin da subito che i grandi editori non prendono nemmeno in considerazione le opere di autori esordienti, all’autrice non rimane che provare a cercare di pubblicare il suo primo libro con una piccola casa editrice. È da qui che comincia il travagliato viaggio di Miriam tra gli “Editori a perdere” che, paradossalmente, diventerà proprio un libro quando, nel 2001, la coraggiosa Stampa Alternativa pubblicherà il volume integrato anche dall’esilarante “Manuale per non farsi pubblicare” di Antonio Barocci. “Editori a perdere” è la descrizione di un mondo che dovrebbe rappresentare ben altra cosa rispetto a quello che succede. Il mondo editoriale descritto dalla Bendia è “un mondo sommerso di truffe e imbrogli ai danni dei giovani autori che deve finalmente essere portato allo scoperto”, in cui editori “Arraffa&divora” approfittano dell’ingenuità degli esordienti per sottoporli a contratti “truffa” con i quali, ad esempio, viene chiesto un importante contributo economico che il più delle volte si dimostra essere solo una fonte di guadagno per la casa editrice che non rispetta gli impegni presi. Una tendenza sempre più in voga tra i piccoli editori che spuntano come funghi anche a causa, secondo l’autrice, della smania degli autori di vedersi pubblicati. Tutto secondo la normale legge della domanda e offerta; tanti autori che vogliono vedersi pubblicati ad ogni costo significano tanti pseudo-editori che ne approfittano promettendo tirature elevate, contatti con amici giornalisti per le recensioni, una distribuzione capillare in grado di far arrivare il libro in tutte le librerie ecc. salvo poi dimostrarsi dei veri e propri truffatori. In “Editori a perdere” tutto questo è raccontato in maniera ironica, il libro scorre veloce e si presta ad essere letto tutto d’un fiato, ma i contenuti sono forti e a volte verrebbe voglia di non crederci. Eppure Miriam ci è passata, ha visto con i suoi occhi le copie del proprio libro ammassate nello stanzino di una fantomatica editrice romana, si è sentita chiedere undici milioni di lire da un editore bolognese per stampare mille copie di un libro di settanta pagine che da un tipografo onesto sarebbe costato poco più di un milione ed ha inutilmente perso tempo e denaro dietro a promesse mai mantenute. Stanca di tutto ciò, la Bendia ha messo su carta nomi, indirizzi e circostanze. Suscitando forti polemiche, ma descrivendo, finalmente, la deriva a cui sta andando incontro la piccola editoria degli ultimi anni.

lunedì, febbraio 19, 2007

internet e videogiochi alla "cinese"

La Cina, lo stato “continente” a cui le democrazie occidentali guardano con timore e rispetto e a cui le multinazionali puntano per incrementare i propri profitti è un paese che per un profano può risultare per certi aspetti surreale. Tanto più se si cerca di capire qualcosa in più sulla cultura del paese di Mao e di piazza Tian an men attraverso le pratiche videoludiche del popolo più numeroso al mondo. Per capire quindi, e per analizzare il fenomeno di internet e dei videogiochi in Cina abbiamo parlato con Fernanda Moneta, giornalista, autrice e Titolare della Cattedra di Regia dell’Accademia di Belle Arti di Roma che ha recentemente pubblicato per Costa & Nolan: “Tecnocin@. Transmedia, videoarte, videogiochi, tra Cina, Corea del Nord, Hong Kong”.

Sappiamo, come descrive anche lei nel testo, che è estremamente difficile ricevere informazioni dalla Cina. In che modo allora è riuscita e riesce a documentarsi sull’argomento?

In effetti il filtro che viene attuato sulle informazioni in uscita dalla Cina è una cosa che potrebbe stupire noi occidentali. Per un cinese è praticamente impossibile mandare e-mail liberamente, e le persone che mandano informazioni di qualsiasi genere, devono essere iscritti in appositi registri. Chi sfugge a queste regole viene subito posto in arresto. Io personalmente ricevo informazioni attraverso una serie di amicizie strette nel corso degli anni soprattutto in Corea, dove sono stata più volte per lavoro. In Cina ho avuto occasione di starci pochi giorni, una visita breve, ma intensa, visto che ho avuto la fortuna – sfortuna di essere a piazza Tian an men il giorno prima del massacro.

Il mercato cinese rappresenta una bella fetta di torta a cui puntare. Si spiega per questo il fatto che le grandi multinazionali come Microsoft si pieghino al volere del Governo?

Assolutamente. Tutte le grandi multinazionali hanno capito che il mercato cinese è ormai quello su cui puntare. E per questo sono disposte ad adeguarsi alla cultura del paese “ospitante” senza problemi. Nel caso cinese poi, questo adeguarsi deve tener conto di regole culturali insite negli abitanti in maniera fortissima. In Cina l’individualismo viene dopo l’interesse del bene comune, le multinazionali lo hanno già capito e sperimentato e sono ben disposte ad una adesione non solo esteriore, ma che tenga conto di tutte le regole della società.

Ma in che modo il Governo riesce ad avere un controllo totale sul mondo dei nuovi media e di internet?

Dire che il controllo è totale forse è esagerato. Internet, per le sue caratteristiche, si presta alla possibilità di “violare” il sistema. Detto questo però, è certo che il Governo riesce a controllare comunque la quasi totalità dei contenuti che viaggiano in rete. Lo fa attraverso un vero e proprio esercito di più di quaranta mila “cyber poliziotti” ufficiali, anche se la Fbi americana dichiara che sono molti di più e che lavorano anche contro il governo americano e quello di Taiwan, una sorta di hackeraggio legalizzato. Il Governo possiede poi un sistema del tutto simile a Echelon che controlla i contenuti. Si tratta di Pachong, settato su stringhe come “4 luglio”, “libertà”, “Cristo” e in generale su tutte quelle parole che vengono considerate di cultura eversiva.

Il Governo non vuole farsi sfuggire proprio nessun possibile contestatore del “sistema” Cina?

Sì. Il controllo dei possibili “sovversivi” non poteva di certo non tener conto dei nuovi media. Ma non si limita solo ai contenuti. C’è una forte prevenzione contro i possibili contestatori attuata, ad esempio, attraverso le cliniche per gli “Addicted”, i drogati da videogiochi e da internet, un’etichetta che spesso e volentieri viene applicata a chi semplicemente non rappresenta un modello. Per avere il controllo delle migliaia di internet point disseminati nel paese invece, si è preso come pretesto un incendio in uno di essi. Sono stati chiusi tutti, e quando sono stati riaperti hanno dovuto sottostare a regole molto più severe.

Anche gli utenti dei videogiochi quindi sono visti come possibili sovversivi?

Il fatto è che il videogioco ti fa essere il soggetto di azioni che mutano il sistema. E per un Governo che lavora affinché questo sistema cambi il meno possibile ciò è chiaramente un problema.

Quali sono state le contromisure adottate?

Il primo videogioco vietato è stato “Project IGI2”, un gioco in cui l’utente doveva bloccare un terrorista cinese che rubava armi sottraendo segreti militari al proprio paese. Un gioco che dunque ledeva l’immagine del popolo cinese. Anche in questo caso però il governo si è preoccupato anche di prevenire il problema. Ai videogiochi è stato imputato di essersi intromessi nell’educazione, quindi è stata creata una commissione politica per realizzare videogiochi educativi. Tra questi “Anti Japan”, una rievocazione storica della guerra con il Giappone in cui l’utente non può scegliere di essere un giapponese e in cui comunque vince sempre la Cina. Insomma hanno creato un gioco dove si sa già come va a finire. Ma quello che stupisce ancora di più è che se non si gioca ad “Anti Japan” si viene schedati.

È una sorta di lavaggio del cervello?

Esatto, ora bisogna capire se sia il sistema migliore o meno. Dal punto di vista di un occidentale può sembrare strano. Ma siamo sicuri che la nostra libertà in certi campi sia la cosa migliore? In effetti se penso alle “libertà” tecnologiche che permettono ad una bambina di cadere nelle mani di una rete di pedofili qualche dubbio mi viene.

venerdì, febbraio 16, 2007

Il manuale del buon scrittore

Arrivare a vedere il proprio nome stampato su un testo esposto in libreria è cosa quanto mai difficile. Ogni aspirante autore che vuole realizzare questo “sogno” compie una serie di errori che compromettono definitivamente il percorso verso l’agognato traguardo e, cosa forse più grave, lo fa senza rendersene conto. Perché la lunga trafila che il libro nascosto nel cassetto deve seguire prima di essere pubblicato rappresenta una strada impervia che l’autore, sempre troppo sicuro di se, conosce poco e male. Ora, per aiutare gli aspiranti scrittori a conoscere i “trucchi” del mestiere e per evitare che gli stessi compiano quegli errori facilmente evitabili, arriva in libreria “78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato & 14 motivi per cui invece potrebbe anche esserlo”, un testo scritto da Pat Walsh, editor americano e co-fondatore della casa editrice indipendente MacAdam/Cage, pubblicato in Italia da TEA. Il titolo del libro è tutto un programma, ma l’avvertenza principale a cui bisogna rispondere prima di leggerlo è quella di essere disponibili a mettere da parte la propria esagerata autostima che ogni nuovo autore porta con se. Il primo consiglio è proprio questo, rassegnarsi a capire che non è assolutamente detto che il proprio libro sia pubblicabile, il primo nemico del “successo” è proprio la tanta sicurezza che, tradotta, significa non rileggere mai quello che si è scritto o preferire far visionare la propria opera ad amici e conoscenti invece che agli addetti ai lavori, gli unici in grado di poter dare un giudizio negativo sul testo. Walsh su questo è chiaro dall’inizio, ma si mette tranquillamente a disposizione di tutti quelli che, invece, sono disposti ad affrontare la realtà e che, con onestà e impegno, intendono prendere sul serio l’arte, il mestiere e il duro lavoro di comporre. Quindi largo al decalogo del buon scrittore che deve per prima cosa “saper farsi notare” ma non deve mai dimenticare l’ultimo consiglio e cioè quello di “divertirsi” sempre e comunque mentre scrive. Nel mezzo ci sono le regole da seguire per essere pubblicato: dal “coltivare grandi speranze e aspettative ragionevoli”, al “mantenere una prospettiva sana”, alla “buona gestione del proprio tempo”, alla “pazienza condita di tenacia”, alla “elasticità”, fino al “fare tesoro dei no ricevuti”, all’“assumersi rischi calcolati”, per finire col “prendersi sul serio”. Grazie alla sua grande conoscenza del settore, e partendo dalle tante ragioni per cui un manoscritto non raggiunge quasi mai la libreria, Walsh guida il lettore attraverso il mondo editoriale, con le sue diverse esigenze e particolarità, ma non tralasciando, chiaramente, gli ingredienti fondamentali di un buon libro; è questo in fondo l’obiettivo che ogni aspirante autore deve imporsi, perché, come dice lo stesso Walsh “nulla vi avvicinerà al sospirato traguardo della pubblicazione più del fatto di aver scritto un bel libro”.