lunedì, febbraio 19, 2007

internet e videogiochi alla "cinese"

La Cina, lo stato “continente” a cui le democrazie occidentali guardano con timore e rispetto e a cui le multinazionali puntano per incrementare i propri profitti è un paese che per un profano può risultare per certi aspetti surreale. Tanto più se si cerca di capire qualcosa in più sulla cultura del paese di Mao e di piazza Tian an men attraverso le pratiche videoludiche del popolo più numeroso al mondo. Per capire quindi, e per analizzare il fenomeno di internet e dei videogiochi in Cina abbiamo parlato con Fernanda Moneta, giornalista, autrice e Titolare della Cattedra di Regia dell’Accademia di Belle Arti di Roma che ha recentemente pubblicato per Costa & Nolan: “Tecnocin@. Transmedia, videoarte, videogiochi, tra Cina, Corea del Nord, Hong Kong”.

Sappiamo, come descrive anche lei nel testo, che è estremamente difficile ricevere informazioni dalla Cina. In che modo allora è riuscita e riesce a documentarsi sull’argomento?

In effetti il filtro che viene attuato sulle informazioni in uscita dalla Cina è una cosa che potrebbe stupire noi occidentali. Per un cinese è praticamente impossibile mandare e-mail liberamente, e le persone che mandano informazioni di qualsiasi genere, devono essere iscritti in appositi registri. Chi sfugge a queste regole viene subito posto in arresto. Io personalmente ricevo informazioni attraverso una serie di amicizie strette nel corso degli anni soprattutto in Corea, dove sono stata più volte per lavoro. In Cina ho avuto occasione di starci pochi giorni, una visita breve, ma intensa, visto che ho avuto la fortuna – sfortuna di essere a piazza Tian an men il giorno prima del massacro.

Il mercato cinese rappresenta una bella fetta di torta a cui puntare. Si spiega per questo il fatto che le grandi multinazionali come Microsoft si pieghino al volere del Governo?

Assolutamente. Tutte le grandi multinazionali hanno capito che il mercato cinese è ormai quello su cui puntare. E per questo sono disposte ad adeguarsi alla cultura del paese “ospitante” senza problemi. Nel caso cinese poi, questo adeguarsi deve tener conto di regole culturali insite negli abitanti in maniera fortissima. In Cina l’individualismo viene dopo l’interesse del bene comune, le multinazionali lo hanno già capito e sperimentato e sono ben disposte ad una adesione non solo esteriore, ma che tenga conto di tutte le regole della società.

Ma in che modo il Governo riesce ad avere un controllo totale sul mondo dei nuovi media e di internet?

Dire che il controllo è totale forse è esagerato. Internet, per le sue caratteristiche, si presta alla possibilità di “violare” il sistema. Detto questo però, è certo che il Governo riesce a controllare comunque la quasi totalità dei contenuti che viaggiano in rete. Lo fa attraverso un vero e proprio esercito di più di quaranta mila “cyber poliziotti” ufficiali, anche se la Fbi americana dichiara che sono molti di più e che lavorano anche contro il governo americano e quello di Taiwan, una sorta di hackeraggio legalizzato. Il Governo possiede poi un sistema del tutto simile a Echelon che controlla i contenuti. Si tratta di Pachong, settato su stringhe come “4 luglio”, “libertà”, “Cristo” e in generale su tutte quelle parole che vengono considerate di cultura eversiva.

Il Governo non vuole farsi sfuggire proprio nessun possibile contestatore del “sistema” Cina?

Sì. Il controllo dei possibili “sovversivi” non poteva di certo non tener conto dei nuovi media. Ma non si limita solo ai contenuti. C’è una forte prevenzione contro i possibili contestatori attuata, ad esempio, attraverso le cliniche per gli “Addicted”, i drogati da videogiochi e da internet, un’etichetta che spesso e volentieri viene applicata a chi semplicemente non rappresenta un modello. Per avere il controllo delle migliaia di internet point disseminati nel paese invece, si è preso come pretesto un incendio in uno di essi. Sono stati chiusi tutti, e quando sono stati riaperti hanno dovuto sottostare a regole molto più severe.

Anche gli utenti dei videogiochi quindi sono visti come possibili sovversivi?

Il fatto è che il videogioco ti fa essere il soggetto di azioni che mutano il sistema. E per un Governo che lavora affinché questo sistema cambi il meno possibile ciò è chiaramente un problema.

Quali sono state le contromisure adottate?

Il primo videogioco vietato è stato “Project IGI2”, un gioco in cui l’utente doveva bloccare un terrorista cinese che rubava armi sottraendo segreti militari al proprio paese. Un gioco che dunque ledeva l’immagine del popolo cinese. Anche in questo caso però il governo si è preoccupato anche di prevenire il problema. Ai videogiochi è stato imputato di essersi intromessi nell’educazione, quindi è stata creata una commissione politica per realizzare videogiochi educativi. Tra questi “Anti Japan”, una rievocazione storica della guerra con il Giappone in cui l’utente non può scegliere di essere un giapponese e in cui comunque vince sempre la Cina. Insomma hanno creato un gioco dove si sa già come va a finire. Ma quello che stupisce ancora di più è che se non si gioca ad “Anti Japan” si viene schedati.

È una sorta di lavaggio del cervello?

Esatto, ora bisogna capire se sia il sistema migliore o meno. Dal punto di vista di un occidentale può sembrare strano. Ma siamo sicuri che la nostra libertà in certi campi sia la cosa migliore? In effetti se penso alle “libertà” tecnologiche che permettono ad una bambina di cadere nelle mani di una rete di pedofili qualche dubbio mi viene.

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