sabato, marzo 17, 2007

“Terra matta” autobiografia di un analfabeta

Vincenzo Rabito, bracciante siciliano semi analfabeta, dal 1968 al 1975, ogni giorno si chiude a chiave in camera per scrivere su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Ne vengono fuori 1027 pagine che rimangono chiuse nel cassetto fino a quando il figlio Giovanni, alcuni anni dopo la sua morte, le invia al Premio Pieve - Banca Toscana dedicato alla diaristica. L’opera vince il premio, Einaudi ne acquista i diritti e ora quelle mille pagine sono diventate le 400 che compongono “Terra matta”, libro uscito nei Supercoralli in versione ridotta ma esattamente come lui l'ha scritto, senza cambiare neppure una parola del testo originale. Non è un’autobiografia come tante, perché più che la storia della sua vita, è quella della lotta tra la sua condizione di semianalfabeta di un piccolo paese del ragusano, Chiaramonte Gulfi, e la sua esplosiva voglia di scrivere. Ma è anche un po’ la storia del nostro paese visto attraverso i ricordi di un ragazzo del ’99, l’ultima sfortunata classe chiamata al fronte nella prima guerra mondiale, che poi ha vissuto le bombe della seconda, il “rofianiccio” del Ventennio fascista e le campagne d’Africa, la fame atavica del Sud contadino e l'improvviso benessere della “bella ebica” del boom economico, l’avvento della tv e il potere mafioso. Secondo l'editore, che considera “Terra matta” una delle uscite più importanti dell’anno, Rabito fa un affresco della Sicilia degno di un “Gattopardo” popolare. Un’“Epopea tragicomica” attraverso un secolo di storia italiana, come la descrive invece la curatrice (insieme a Luca Ricci) Evelina Santangelo, scritta in un misto tra dialetto siciliano e italiano incerto da un bracciante che non ha studiato e non conosce la grammatica (metteva un punto e virgola quasi dopo ogni parola e il resto della punteggiatura a caso dove capitava). La storia personale di Rabito è travolgente ed evocativa, anche se non è facile seguire le evoluzioni del suo pensiero e districarsi in una lingua che è dialetto sì, ma solo parlato e per giunta da un semianalfabeta - ''La sua vita fu molta maletrata e molto travagliata e molto desprezata...” l’inizio del primo capitolo. Il padre muore di polmonite, la mamma resta sola con 7 figli. Tocca a lui, Vincenzo, il secondogenito sostenere la famiglia e a sette anni comincia a lavorare. Fa di tutto: vendemmia nei paesi vicini, zappa la terra, scava fino al richiamo in guerra. Lì scava le trincee, è affamato, si salva e fa parte dei soldati che fermano gli austriaci sul Piave. Torna a casa, si fa opportunista, come tanti, e diventa fascista, poi si ritrova di nuovo in guerra e riesce anche questa volta a tornare. Il dopoguerra è esemplare e una volta sposato, diventa cantoniere per raccomandazione. Saranno i suoi figli però, a vincere la battaglia per cui ha lottato più a lungo, quella del salto sociale e degli studi. “Terra matta” ci racconta le peripezie, le furbizie e gli esasperati sotterfugi di chi ha dovuto lottare tutta la vita per affrancarsi dalla miseria e per salvarsi la pelle, ma ci parla anche del carattere stesso del nostro Paese, dimostrandosi, pagina dopo pagina, come una straordinaria epopea dei diseredati.

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